“Lo Straniero” di Camus: ecco un’opera che merita di essere letta, riletta e meditata. Opera attraverso la quale, con l’espediente della storia narrata in prima persona, l’autore esemplifica, con impatto immediato e piuttosto destabilizzante, l’impossibilità di conciliare in una sola, le diverse prospettive umane.
Troppo spesso nel tentativo di comprendere la realtà mentale dell’altro si finisce con il fargli violenza, assoggettandolo ai propri schemi.
Allora il primo punto di domanda di Camus immagino sia questo: se si possa trovare un luogo di incontro per conoscersi davvero, o per caso non si stia gli uni accanto agli altri, isolati all’interno di un muro invalicabile di fraintendimenti e proiezioni.
E forse per questa ragione si ha l’impressione di osservare per tutto il tempo, insieme al protagonista Meursault, la vita e gli uomini da dietro un vetro, come se i suoi pensieri scaturissero da un interno chiuso e soffocante dal quale si compie una sistematica opera di spoliazione della realtà psichica.
Eppure, anche se il mondo del simbolo e degli affetti sembra precluso, e i pensieri, essendo privi della naturale coloritura dei sentimenti, appaiono meccanici e piatti, sperimentiamo progressivamente l’accrescersi di uno struggente desiderio di vita.
E intanto Meursault, a partire dal momento del funerale della madre, annota con giudiziosa quanto asettica puntualità ogni più piccolo dettaglio degli avvenimenti quotidiani, tanto che diventa quasi impossibile delineare il soggetto centrale della sua prospettiva.
Un dettaglio assume la stessa valenza di un evento straordinario mentre avvenimenti che dovrebbero risultare straordinari, come un funerale o un incontro d’amore, si dissolvono nel calderone delle mutevoli sensazioni, descritte attraverso una cronaca attenta e spesso puntellata di noia e fatica. Dunque una cappa caliginosa e ovattata scende sulla nostra percezione di lettori.
Immagini vacue di un eterno presente si susseguono senza apparente nesso tra loro. Unico filo conduttore: le sensazioni concrete di un esserci all’interno di un corpo, che vincola con bisogni e limiti o che talvolta, dona piacevoli esperienze piene di intensità.
Su uno sfondo omogeneo emergono le emozioni, quali istantanee pronte a dissolversi nel mare di percezioni, mentre la mente è catturata da una iper-sensorialità prevaricante che regola lo scorrere del giorno.
Attraverso il suo personaggio Camus ci fa provare un senso di estraneità, o di estraniamento. Quello che appunto uno straniero o forse un alieno potrebbe provare in un pianeta sconosciuto. Giunto da un universo psichico altro e perciò completamente privo delle categorie che ci contraddistinguono come esseri umani sociali e al tempo stesso ignaro di quelle regole della comunicazione che organizzano e definiscono il perimetro dei nostri rapporti, egli ci appare in qualche modo innocente e puro.
Perfino quando scarica cinque colpi di pistola sul corpo di un uomo, solo perché oppresso dal caldo, quello stesso caldo che a causa del sole accecante, il giorno del funerale della madre aveva cominciato ad intaccare, senza che ce ne avvedessimo, l’equilibrio evidentemente fragile di Meursault.
Si comincia a domandarsi se non siano le sensazioni fisiche a prendere il posto dei sentimenti, comunicandoci il contenuto di un mondo interno altrimenti indecifrabile, e assumendo un peso tale da spezzare l’armonia del giorno in modo irreparabile.
L’imminente frattura era stata in effetti segnalata da alcuni episodi apparentemente privi di significato, come quello del Salamano che gemendo per la perdita del suo cane, porta Meursault a ripensare alla madre, per lui senza un motivo. O quello in cui Meursault si sente svuotato e con il mal di testa alla vigilia della gita al mare.
Sembra dunque che sia il corpo a veicolare comunicazioni altrimenti inesprimibili.
Così, improvvisi guizzi di eccitazione e felicità vengono osservati e poi descritti con l’onnipresente distacco, mentre la compassione o il dolore per la sofferenza altrui sono sostituiti da una ragionevolezza oggettiva e spassionata che permea la valutazione dei fatti fino al punto estremo di concordare con la posizione dell’interlocutore anche quando questa è contraria ai propri interessi più vitali.
Questa caratteristica in effetti disarma, commuove e intenerisce, ma solo chi è collocato nella mente del protagonista, cioè noi lettori, mentre il resto del mondo interpreta le sue parole e le sue azioni alla luce delle proprie griglie interpretative, fraintendendone intenzioni e atteggiamenti.
Assunti relazionali come il principio principe della comunicazione: che non si può non comunicare, (qualsiasi cosa facciamo o non facciamo è oggetto di attribuzioni da parte degli altri) generano una paradossale situazione di incomunicabilità. Lo vediamo chiaramente quando tutti coloro che circondano Meursault inferiscono dalle sue parole e ancor più dai suoi silenzi, una lunga serie di metasignificati che portano inesorabilmente alla condanna assoluta.
Ciò che sfugge alla comprensione comune può solo essere rifiutato. Lo straniero, estraneo e alieno, diventa il mostro per definizione.
Quello che sgomenta chi lo circonda, è che Meursault è portatore di un’assenza di significato. Egli è straniero infatti anche a se stesso, completamente estraneo al mondo dei sentimenti, dissociati ed evacuati nel corpo, portatore dei pesi e delle sofferenze della vita. E dunque è la morte personificata che, con il suo essere inestricabilmente connessa alla vita, offende la ragione e l’istinto primario alla sopravvivenza.
Necessariamente un tale individuo dev’essere considerato un criminale e suscitare ora sdegno ora ilarità ora imbarazzo perché non si è capaci di sospendere ogni giudizio e restare in silenzio di fronte al proprio limite.
E anche perché non si è capaci di rinunciare ad un egocentrismo che porta inesorabilmente a chiedere conto della nostra infelicità a chi ci circonda.
Meursault sembra a tutta prima una creatura primitiva, quasi un debole mentale eppure si resta con l’imbarazzante sensazione di esserlo noi, quando ci identifichiamo con il buon senso comune, dal momento che per non saperci confrontare con ciò che non comprendiamo, lo comprimiamo nelle nostre limitate categorie interpretative, metaforicamente rappresentate dall’angusto spazio di prigionia in cui l’uomo, ignaro di ciò che si muove attorno a lui, è costretto a vivere negli ultimi mesi, fino all’annientamento finale.
La mente umana è programmata per trovare un senso, per mettere un bordo ad un infinito omogeneo in modo da delineare una figura qualsiasi e trarre dal nulla una forma di esistenza.
Vediamo dunque uno a uno i personaggi che lo circondano, cucirgli addosso una trama complessa di attribuzioni tutte nate dai bisogni, desideri e paure di ciascuno.
Nella prima parte del romanzo ci sono quelli che lo guardano con stima, rispetto e affetto. Perfino amore. Un amore che però non può salvare perché privo di significato agli occhi di Meursault e quindi incapace di giungere oltre il limite invalicabile della separazione di menti e di corpi. Il ricordo stesso della bellezza di Marie e dei fugaci istanti incantati vissuti assieme a lei è destinato a cedere il posto all’infinita solitudine del protagonista che non ricevendo più visite la immagina necessariamente assorbita da una nuova relazione. Del resto lei stessa di fronte alla noncuranza di Meursault per la sua proposta di matrimonio, che pure accetta, finisce col domandarsi se lo ami veramente, giudicandolo appunto “strano”. Forse lo ama proprio per questo ma sa che un giorno potrebbe farle schifo per lo stesso motivo.
Nella seconda parte poi vediamo capovolgersi nel suo rovescio l’emblematica medaglia mentre l’arringa finale del procuratore sarà come un fiume in piena che travolge, con la sua retorica, le deboli menti della giuria e dell’uditorio ormai persuasi della colpevolezza dell’imputato.
E mentre lo scorrere dei pensieri di Meursault va di pari passo con gli avvenimenti, su di lui si accumulano le nubi nere della tragedia, creata da un mondo che funziona con la stessa precisione crudele e meccanica della ghigliottina cui la sua testa è destinata. Una società che crede di essere detentrice dei valori di verità, giustizia e bontà, e che li porta avanti con feroce determinazione fino a trasformare ciò che non è in grado di comprendere, in un mostro.
Horror vacui dunque è un altro dei temi di questo capolavoro, che attraverso un tono affettivo piatto fa trapelare un dolore straziante che sorge improvviso quando osserviamo compiersi il vero delitto ai danni del capro espiatorio che, senza quasi avvedersene, assume su di sé la colpa del mondo come un novello Cristo. La colpa risiede nel sentimento di impotenza di cui non si ha il coraggio di farsi carico. Meursault diventa allora il bersaglio della rabbia di tutti, proiettata e mimetizzata nella creazione del mostro alieno e ripugnante.
La colpa è anche quella del darsi un’importanza esagerata, a differenza di Meursault che dotato di una inconscia umiltà, più simile a quella di un animale che di un uomo, si lascia attraversare dall’esistenza assaporandone interamente i momenti di poesia e lasciandoli andare per sempre l’istante successivo.
Ma assieme a questi filoni principali alcune inquietanti domande sembrano affiorare implicitamente dal testo. E’ davvero una debolezza la mancanza di sentimenti se ci porta a quel necessario distacco che permette di godere di ogni attimo come se fosse l’unico? L’amore esiste o tutto quello che possiamo sperare di dare e ricevere davvero è il godimento reciproco dei corpi accompagnato da fuggevoli emozioni che assumono così valore assoluto?
Il mondo degli affetti può permanere in una condizione di purezza senza essere presto contaminato dalla pressione di bisogni egoistici che portano a legami reciprocamente distruttivi, come ben mostra il rapporto tra il Salamano e il suo cane? Possono davvero distinguersi l’amore, dall’odio? L’altruismo dall’egoismo? O non si tratta per caso di categorizzazioni atte a proteggerci dalla coscienza della nostra miseria?
E ancora: i sentimenti sono davvero utili o non distorcono forse il reale con la loro soggettività? Non sarebbe meglio munirsi della stessa indifferenza che sembra caratterizzare Meursault per interpretare in modo veritiero ciò che ci circonda?
Due omicidi sono messi a confronto: quello apparentemente privo di significato ad opera di Meursault e che viene letto come un segnale di brutalità gratuita, e quello legalizzato che vede il protagonista come vittima di una società che si arroga il diritto di condannare un proprio simile. Sono davvero differenti nella sostanza? Questo sembra chiedersi l’autore, che portando il suo pubblico ad identificarsi con lui sembra propendere per una assoluzione del primo e una condanna del secondo.
L’aggressione cui l’uomo è sottoposto, chiuso in una cella e privato di quella libertà di cui era inconsapevolmente innamorato lo costringe a sentire oltre ogni limite e capacità di sopportazione e ad incontrare se stesso in una introspezione forzata e dolorosa, che esplode nello sfogo di rabbia di fronte all’invadente intrusione del prete che prepotentemente vuole dare aiuto al solo vero scopo di riceverne.
Dunque alla fine sentimenti di collera fanno irruzione di fronte all’ennesima forma di violenza psicologica e con essi, gioia per l’improvvisa chiarezza che porta conciliazione tra i pensieri frenetici con i quali Meursault aveva cercato di trovare una soluzione di fronte all’alternarsi di accettazione della morte e desiderio di prolungare la vita.
Si completano così definizione di sé e visione del mondo la cui “tenera indifferenza” porta Meursault a riconoscere la sua somiglianza con esso e a scoprire un sentimento di fratellanza, soprattutto verso la madre con cui si accorge di condividere il bisogno di ricominciare una nuova vita proprio a ridosso della morte.
Sorge come un sole a illuminare la coscienza, la consapevolezza che niente ha importanza. Essa diventa accettazione totale e liberazione finale.
Come il prete che piange, pieno di superflua compassione per il condannato, constatiamo con dolore e soggezione l’incertezza di poterci mai veramente avvicinare a Meursault e con lui a qualsiasi essere umano compresi noi stessi, a meno di non riconoscere la completa mancanza di significato e di importanza di tutte le nostre sovrastrutture psicologiche e sociali.
Solo così si può forse sperare di giungere alla verità delle cose e sperimentare autentica fratellanza e gratitudine per il privilegio di essere vivi.
Di Marina Mollica
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