Psicoterapia del bambino: esplorazione di un mondo sommerso

 

La psicoterapia del bambino ad indirizzo psicoanalitico si caratterizza per avere come interesse principale, l’esplorazione del suo mondo interno, che può essere inteso come un vero e proprio mondo sommerso.

Il bambino arriva in consultazione quando i genitori sentono di non riuscire più a comprenderlo a causa di sintomi che in realtà sono solo la punta dell’iceberg di questo mondo interiore e che rendono insostenibile la sua vita.

Essi improvvisamente si rendono conto che quelli che consideravano capricci, svogliatezza, un carattere un po’ difficile, o semplici paure infantili, forse sono qualcosa di diverso e più preoccupante.

Sentono di non essere più in grado di aiutarlo a crescere con i mezzi che fino a quel momento avevano a disposizione.

Giungono quindi a chiedere una consulenza psicologica per essere aiutati a capire. Si domandano: “Che cos’ha il mio bambino? Cosa gli sta succedendo?” E questa domanda genera molta angoscia.

In questo contesto allora lo psicoterapeuta infantile aiuta i genitori a mantenere la capacità di pensare in una situazione in cui è veramente difficile farlo. Non si pone come una figura onnisciente ma come interlocutore interessato ad avviare e sostenere un processo di esplorazione e comprensione del piccolo paziente.

Il terapeuta dunque non sa già tutto ma mette a disposizione gli strumenti che possiede (conoscenze, esperienza, sensibilità personale, creatività) per sollecitare risposte personali e domande inaspettate. E soprattutto nuovi punti di vista possibili.

Il terapeuta è un vero e proprio alleato dei genitori e del bambino in una situazione che fa sentire tutti “in trincea”.

Ci saranno diverse sedute per incontrarsi e conoscersi.

I genitori potranno raccontare cosa li ha portati a chiedere aiuto e la loro storia con il bimbo fin dal momento del concepimento.

Potrebbero anche emergere emozioni forti magari rimaste congelate per tanto tempo in qualche angolo della mente.

L’incontro con il bambino

L’incontro con il bambino avverrà in un secondo momento in uno spazio a lui dedicato che gli permetterà di esprimersi così come gli viene senza “consegne” di nessun tipo.

Il terapeuta vuole conoscerlo per come è e non per come ci si aspetta che sia.

Il bambino riceve perciò un ascolto tutto particolare. Fatto di silenzio o di parole su quanto accade in quel momento.

E’ come se il terapeuta lo prendesse per mano dicendo: “vediamo insieme che succede adesso, come sei, com’è il paesaggio che mi porti. Potrebbero esserci mostri spaventosi, precipizi, terremoti…ma questo viaggio lo faremo assieme e sarò con te per tutto il tempo necessario”.

Il bambino comprende perfettamente che la stanza di terapia è un luogo speciale, un luogo come non ce ne sono altri e solitamente questo lo porta a desiderare di tornarci al più presto. Anche se non sempre è così. Dipende dal tipo di difficoltà. Potrebbe anche non volerne sapere di avere accanto una persona cui legarsi come all’unico compagno di un viaggio potenzialmente pericoloso. La dipendenza dal terapeuta può fare molta paura e può farne anche agli stessi genitori.

E anche questo potrà essere oggetto di un lavoro assieme.

All’avvio del percorso di psicoterapia il bambino tornerà di settimana in settimana in quel luogo di incontro dove le sue storie prenderanno forma attraverso personaggi e giochi in continua trasformazione. E assieme ad essi anche lui comincerà a cambiare. A volte in modi imprevedibili e che possono mettere sotto pressione i genitori.

Per questa ragione, parte della terapia infantile consiste degli incontri periodici con loro. Avranno modo in queste occasioni di porre tutte le domande del caso e di chiarire i punti oscuri. Anche il terapeuta però avrà modo di ricevere impressioni e considerazioni utili per lo svolgimento del suo lavoro.

Si tratta di una collaborazione che potrebbe ulteriormente coinvolgere scuola, educatori, colleghi, in un processo evolutivo sempre più esteso e profondo.

E’ importante sottolineare che la stanza di terapia è un luogo dove i bambini portano tutte le parti di sé, anche quelle più scomode, che possono generare disapprovazione o rifiuto negli altri.

Proprio questa è la grande prova cui il terapeuta è sottoposto: riuscire a far sentire una accettazione incondizionata del suo piccolo paziente indipendentemente dal comportamento che terrà o dal modo con cui si esprimerà.

Il terapeuta infantile non ha il ruolo di un educatore, pertanto non è interessato a produrre un determinato comportamento nel suo paziente ma ad osservare e comprendere ciò che succede aiutandolo a fare altrettanto.

Per questo sarà molto importante che i genitori comprendano in che cosa la psicoterapia psicoanalitica infantile si differenzia rispetto ad altri tipi di trattamento. L’attenzione è sui processi interni e non sul fatto che il bambino soddisfi determinate aspettative, modificando il proprio comportamento esteriore.

Una trasformazione dello stato mentale del bambino avverrà attraverso una progressiva interiorizzazione del funzionamento della mente del terapeuta  e questo è un processo che richiede tempo.

Così come la personalità si costruisce negli anni, più il bambino sarà grande, più tempo ci vorrà per ottenere una trasformazione profonda.

Aspettarsi dei progressi o la risoluzione in tempi brevi del problema per cui il bambino è stato portato in terapia, non è molto realistico.

A volte succede che ci sia un immediato e tangibile miglioramento, dovuto al fatto di aver trovato uno spazio per sé dove essere accolto. Ma cambiamenti che resistano nel tempo, possono avvenire solo con un lungo e paziente lavoro da parte di tutti.

 

Di Marina Mollica

e-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it

Del delitto di Paderno

 

Del delitto di Paderno vorrei parlare in modo tangenziale per porre l’accento su alcune riflessioni che esso mi ha portato a fare.

Riguardo al fatto, mi limiterò a dire che ogni azione efferata, non premeditata, equivale a una scarica incontrollata, una evacuazione di angosce che non è stato possibile metabolizzare attraverso la funzione del pensare. Si tratta di una difesa estrema che in qualche modo pone all’esterno lo scenario di relazioni con gli oggetti primari (genitori e fratelli), interiorizzate nell’infanzia, di solito traumatiche e riattualizzate nell’agito, a seguito di un evento scatenante.

Se c’è un accoltellamento sanguinolento dove delle vittime impotenti, terrorizzate e sbigottite si vedono dilaniare le carni in un lago di sangue possiamo rovesciare questa immagine e riferirla a quanto provato dal ragazzo che evidentemente si sentiva vittima impotente e disperata di qualcosa che lo faceva a brandelli. Possiamo anche pensare che in casi come questo ci siano parti dissociate della personalità che coesistono senza che nessuno, probabilmente nemmeno il soggetto in questione ne sia del tutto consapevole. La parte traumatizzata, dissociata e silente continua a sussistere in un mondo a parte, tanto più virulento quanto più denegato. Ma quello che è certo è che prima o poi tornerà a farsi sentire irrompendo nella vita quotidiana.

Il nostro mondo interno, che non è il semplice riflesso di quello esterno ma è certamente in relazione ad esso, determina come ci sentiamo e cosa facciamo. Ed è paradossale che pur essendo questo punto sotto gli occhi di tutti, sia tanto difficile esserne consapevoli.

Per esempio liquidiamo il pianto di un bambino come capriccio, il rifiuto come maleducazione, il non fare e non obbedire come assenza di una disciplina severa ecc. invece di domandarci cosa stia succedendo davvero. E il piccolo disimpara a sentire come significativo ciò che prova appoggiandosi completamente a ciò che è imposto dall’esterno per interpretare quello che gli succede dentro.

In famiglie dove poi accadono tragedie come quella di cui sopra, viene da pensare che siano in opera distorsioni massicce della comunicazione all’interno di relazioni caratterizzate dal principio implicito e quindi non riconosciuto ma denegato, del “mors tua vita mea”.

Ma naturalmente per esprimere un parere accurato sarebbe necessario conoscere ogni dettaglio della vita personale del ragazzo, la sua storia evolutiva per capirci.

In questa sede invece mi interessa di più soffermarmi su aspetti che riguardano il contesto più ampio in cui questa famiglia era inserita. Il nostro contesto sociale così come lo possiamo osservare oggi.

E, visto che si parlava di agiti (azioni impulsive di scarica di tensioni emozionali private dell’accesso al pensiero simbolico), vorrei riportare ciò che qualcuno mi aiutava a osservare: essi si innestano su una società che favorisce fortemente l’agire piuttosto che il pensare.

Siamo fin da piccoli inseriti in un circuito di aspettative e progetti che ci spingono a fare: a fare presto e fare bene. Velocità si identifica con avanguardia, benessere e potere: pensiamo ad esempio alla tecnologia la quale, sostituendoci sempre più velocemente nelle nostre funzioni, ben lungi dall’offrirci spazi liberi e potenzialmente creativi, non fa altro che imporci una accelerazione progressiva dei nostri processi mentali e comportamentali per i quali non c’è tempo né spazio di gestazione. Siamo imbrigliati in consuetudini sociali, familiari, lavorative che escludono fantasia, fantasticheria, libera associazione di idee, fluttuare dell’attenzione e vuoti mentali. Perfino il tempo “libero” è inteso prevalentemente come qualcosa di organizzato e strutturato, cosicché dobbiamo attivarci per rilassarci. Ci perdiamo i ritmi naturali dell’esistenza che del resto miriamo a far diventare sempre più artificiale: si pensi all’IA. Dunque efficienza e risultato innanzi tutto. E i piccoli devono adeguarsi, inseriti come sono, sempre più precocemente, nel circuito del sapere e del saper fare. Della produttività insomma.

Del resto a questo proposito i programmi scolastici sembrerebbero dare sempre più spazio a materie che garantiscano al futuro lavoratore una formazione degna di un mondo produttivo: le lingue straniere, in testa l’inglese, e poi l’informatica, la tecnologia, l’economia ecc. per non parlare dell’alternanza scuola-lavoro. Guai a studiare per il sapere. Dobbiamo al più presto ricordarci che tutto è in funzione dell’inserimento nel mondo del lavoro e dei crediti formativi conseguenti. 

Un discorso a parte va fatto per la sempre maggiore presenza nelle scuole, degli psicologi e di progetti volti a rendere i giovani maggiormente consapevoli di se stessi nonché dei loro processi emotivi, cognitivi e comportamentali. Tutte cose utilissime sulla carta, peccato che se questi progetti sono inseriti nella cornice complessiva dell’utilitarismo efficientistico essi hanno già perso la battaglia in partenza. Infatti sembra che l’unico scopo di una buona psicologia sia rendere meglio adattato l’individuo e più funzionale all’ambiente. Ottimo, ma siamo ancora nel regno dell’apprendere per fare, o meglio dell’apprendere per avere: più benessere, più efficienza, più sicurezza ecc. e non dell’essere. Se ci trovassimo nella dimensione dell’essere potremmo osservare con calma e in silenzio, quanto accade, lasciar decantare ogni reazione emozionale disturbante, lasciar emergere immagini, sentimenti, riflessioni, pensieri, senza giudizi o imposizioni dettate da categorie: giusto-sbagliato, utile-dannoso, efficiente-inutile o da sillogismi del tipo: se il tuo comportamento è conforme alle attese sociali allora sei sano e felice. Sto parlando di quel processo creativo di soluzione e scoperta di nuove idee e nuove prospettive che non viene solo dal brainstorming, tempesta di cervelli che si devono impegnare attivamente per raggiungere in gruppo il risultato più veloce e soddisfacente, ma anche del lasciar fluttuare la mente, del dare spazio a un tempo del riposo o di un vuoto apparentemente senza senso.

Ma tutto questo è incompatibile con la strutturazione sempre più massiccia e capillare di ogni nostro momento del mondo esterno e interno. Per questo i giovani, assieme a noi che glielo insegniamo, sono costretti a tirare avanti la carretta: “Concentrati! Dacci dentro! programma il tuo futuro!” E e se vuoi pensare fallo secondo le griglie della psicologia istituzionale, strutturando schemi, formulando obiettivi e misurando risultati. Efficienza innanzi tutto: avanti, avanti, avanti! “Chi si ferma è perduto…” E se poi un giovane compie un gesto folle in questa rincorsa all’oro, restano tutti di sasso. Eppure alla macchina in corsa, la benzina l’abbiamo fornita noi. Ma pretenderemmo, dopo averla lanciata, che fosse munita di freni adatti a contenere ogni spinta iniziale.

Fin dalla primissima età, identificati con genitori che non sanno ascoltare nemmeno se stessi, a loro volta i bambini e poi giovani, finiscono per non ascoltarsi. Ciò significa che non danno peso, valore, significato a ciò che sentono e per questo spesso non sono nemmeno in grado di mettere in parole il loro sentire. Ma anche qualora lo fossero, quelle parole non rivestirebbero alcuna valenza affettivo emotiva perché fin dalla più tenera età private delle loro connessioni naturali con le emozioni, gli stati affettivi, i sentimenti, le angosce che le caratterizzavano. Ho avuto molti pazienti in possesso di un lessico ricchissimo e a volte estremamente tecnico, appreso tramite i progetti scolastici e dal web, sulle loro condizioni mentali ma inadatto a favorire la capacità di identificare i nessi tra il sentire e l’agire.

E mi sono accorta che proprio i pazienti che stanno più male, quelli che spesso non hanno il controllo dei propri impulsi sono quelli più in difficoltà nel dare significato e valore a ciò che pensano e sentono, come se fin da piccolissimi fossero stati abituati a denegare in modo massiccio una grossa fetta della loro esistenza mentale, perdendo così il contatto con il loro mondo interno per poi ritrovarsi ad essere travolti da tsunami psicoemotivi altrimenti definiti disregolazione emozionale.

Il problema è familiare? Può darsi. C’è una psicopatologia? Può darsi. Ma dobbiamo finirla di pensare alla psicopatologia come a una entità monolitica e inscalfibile che una volta diagnosticata mette a posto la coscienza della collettività. E dobbiamo smettere di pensare a queste situazioni come casi che non ci riguardano se non per puntare il dito e individuare l’ennesimo capro espiatorio atto a nascondere i nostri peccati. Le forme della psicopatologia sono costrutti mentali utili più ai professionisti del settore che non ai pazienti. Meglio comprendere che dietro un’etichetta diagnostica esiste un mondo complesso e irripetibile, fatto di storia personale, di eventi esteriori intrecciati a quelli interiori non del tutto corrispondenti ad essi ma arricchiti da fantasie e fantasmi. E tali eventi sono per lo più esperienze relazionali con persone significative, prima di tutto i nostri genitori e poi quelle del mondo sociale, i pari e gli adulti.

E dunque giungiamo alla strage di Paderno. Come si spiega un delitto così orrifico? Anzitutto abbandoniamo la pretesa della spiegazione lapidaria. Come si può pensare a un’azione umana qualsiasi come a qualcosa che non sottenda la più estrema complessità? Secondo: abbandoniamo l’idea della colpa e delle etichette annesse: colpa dei genitori, colpa della patologia, colpa di questi giovani ormai perduti.

Ricordiamoci che ciò che appartiene a uno appartiene a tutti, che espressioni estreme di comportamento sono la punta di un iceberg in grado di farci incagliare almeno per quel breve istante di sbigottimento. Da esso però ci affranchiamo prontamente per seguire la vicenda non diversamente da come seguiremmo una telenovela di dubbio gusto o riempiendoci con le informazioni di giornali pronti a vendere a buon mercato spiegazioni più o meno accessibili a tutti. Esse ci aiutano a metterci il cuore in pace specie se arrivano da esperti del settore. Ma dimentichiamo che anche le parole degli esperti, sfornate attraverso articoli che devono essere velocemente fruibili, finiscono con l’essere ridotte a pochi concetti spesso fraintesi e non compresi in profondità.

Le domande che vi ponete: “cosa è successo?” e “come si spiega?” vi toccano davvero? Allora è iniziato un processo di evoluzione. Ma c’è qualcuno che abbia tempo per dedicarsi a questo?

Di Marina Mollica

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La natura delle cose

 

Se amiamo davvero qualcosa o qualcuno lasciamo che questo amore segua la natura delle cose. La natura delle cose è tale da richiedere tempo. Un tempo lento e grato. Ogni cosa nasce e si sviluppa senza fretta. Ogni cosa occupa uno spazio che si intreccia con altri spazi in modi che non sono percepibili il più delle volte. Lo sarebbero se non avessimo la propensione ad esigere, afferrare, a prendere possesso, a essere avidi. Potremmo contemplare la miriade di figure nascere e dissolversi in continuazione.

Quando sopraggiunge la stanchezza per il troppo lottare e ci si arrende, si è sulla soglia della disperazione. Ma momenti così possono anche tradursi in una benedizione. Possono costringere a farsi da parte, a lasciar perdere la grossolanità elefantiaca del predatore: il nostro procedere nel mondo (anche se abbiamo modi molto sofisticati di mentire su questo) così legati all’istinto di appropriazione che nasce dall’essere allacciati da tutte le parti alla coscienza del corpo.  

Quanti segni dell’arrivo dell’amore se ci affidiamo all’essere ricettivi. Segni di rinascita o di un ritorno. L’amore è sempre un riconoscere e riconoscersi che viene annunciato dal posarsi enigmatico di una farfalla proprio lì accanto. Dallo sbocciare improvviso di un fiore. Da cerbiatti che corrono assieme. Da una frase, un’immagine, una memoria. Tutt’attorno un richiamo, un risveglio, un pullulare di vita.

Se l’amato è questo: un danzare sincronico di raccordi e concordanze comunicative, allora si può solo contemplare, benedire e poi lasciar andare. Guai a voler afferrare.

Troppo fiabesco per essere vero. Releghiamo al cinema il compito di farci sognare. Che misera vita ci infliggiamo. Certi che le mura che ci circondano abbiano lo spessore della realtà. Boccate d’aria da minuscole finestre, questo è tutto il nostro respirare.

E chini, con lo sguardo a terra, sotto il peso di pensieri irrequieti.

Ci vuole una dura disciplina per ritrovare la natura delle cose. Non percorsi. Via gli ingannevoli percorsi. Bisogna aborrire parole abusate. Cercarne altre. Lasciar perdere le fiere della spiritualità.

Prendere una disciplina, una qualsiasi e amarla. Studiare, concentrarsi, approfondire. E poi riposo. Lavoro e riposo, parola e silenzio. Umiltà, duro lavoro: il cibo per la mente predatrice. Un giorno il guscio rigido si spaccherà e filtrerà la luce. Ma non c’è da farlo per questo.

Ecco un’altra parola: obiettivi. Via i percorsi e gli obiettivi. Niente obiettivi, progetti, percorsi e risultati. Solo dedizione adesso. In un istante che dura un’eternità di profondità.

Il vero trova sempre il modo di raggiungerci. E’ tutt’attorno anche se rotoliamo come delle masse cieche. E se ci raggiunge il vero, ecco l’amore. E questo è nella natura delle cose.

Di Marina Mollica

e-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it

 

Personal Shopper

https://www.youtube.com/watch?v=-5ZFbPMNSis&ab_channel=AcademyTwo

Regia elegantissima e asciutta quella di Personal Shopper, vincitore a Cannes nel 2016, un film dalle atmosfere crepuscolari che avvolgono lo spettatore fin quasi all’ultima scena e che prende inizio dalla sequenza in cui un’auto, attraversando un sentiero boscoso, si avvicina a un cancello oltre il quale una curva impedisce l’ulteriore visuale.

Immaginando fin da subito il passaggio in una dimensione altra, nascosta agli occhi dei più, abbiamo l’impressione che esso segni il confine tra due realtà separate della vita e della coscienza.

Una giovane scende dall’auto e apre il lucchetto compiendo un’azione che sembra un atto rituale che si ripeterà di lì a poco.

Ci addentriamo con lei nella stradina solitaria fino al luogo senza tempo di una lugubre villa vecchio stile.

Con queste sequenze il regista ci introduce lungo la trama del suo film nel quale lo spettatore è subito preso dentro uno stato di sogno.

In esso Maureen si aggira come un fantasma. Ma chi è il fantasma? Lei o Lewis il fratello morto che con lei condivideva il dono della medianità e che aveva promesso di lasciare un segno della sua sopravvivenza dopo la morte? Chi muore veramente? Noi o chi ci lascia?

Siamo avvolti dal lutto di Maureen che è vuoto ma anche ricerca spasmodica di una rivelazione che lo possa colmare.

Per lei infatti è possibile trovare pace solo con la prova che il fratello è sopravvissuto in qualche modo.

Ma è proprio la ricerca di un segno concreto, che fa pensare ad una incapacità di accedere al piano simbolico necessario per elaborare il lutto, così come qualsiasi altro stato mentale, laddove invece il dato di realtà della morte, è denegato.

E dunque ci addentriamo in un mondo nel quale non si è più in grado di distinguere realtà da fantasia, interno da esterno.

Il regista ci fa toccare con mano quello che potrebbe essere lo stato confusionale di chi è sull’orlo di un crollo psicotico, quando la mente non sembra più possedere un apparato per pensare.

Così, né pienamente svegli né completamente addormentati, guidati dai fantasmi proiettati sullo schermo della realtà esteriore si diventa preda di allucinazioni terrificanti.

Insieme a Maureen, come sonnambuli, vaghiamo nel buio che sembra simboleggiare la distruzione dell’apparato percettivo e delle funzioni del pensiero, quelle che ci permettono di elaborare le emozioni anche più dolorose.

Resta dunque sola con i suoi fantasmi la nostra protagonista, che ha un fidanzato, ma lontano, anche dal cuore.

L’unico vero attaccamento, che non lascia spazio a niente e nessuno, sembra essere quello al fratello gemello, morto a causa della stessa malformazione congenita al cuore, che in una ripetizione dello stesso destino, potrebbe essere fatale anche per lei.

Dove c’è ripetizione non c’è risoluzione e dunque il processo del lutto non sembra potersi avviare. Anime gemelle in tutto, dallo spirito al corpo, unico luogo dove è possibile depositare sentimenti non pensabili.

Ed ecco l’altro tema, strettamente collegato al primo, che Assayas sembra voler affrontare: quello dell’amore gemellare, simbiotico.

Esso rende impossibile la separazione e la differenziazione, lasciando una lacerazione irrimediabile nel momento in cui lo si perde.

L’amato fratello lascia un vuoto ostile che non permette un graduale recupero della pace attraverso l’accettazione della realtà della morte.

L’atmosfera si colora presto di toni scuri, inquietanti, e i significati si confondono, fino a che non è più possibile distinguere il bene dal male.

 Prende piede una realtà divisa tra idealizzazione e persecuzione. L’idealizzazione costringe Maureen a cercare spasmodicamente il fratello assente, trasformato in una figura quasi santificata, capace di inviare mistici segni a riprova di una vita oltre la vita.

Quella vita che Maureen semplicemente non riesce a preservare dentro di sé, attraverso la dolcezza dei ricordi, pur dolorosi, da elaborare e interiorizzare uno ad uno fino ad ottenerne un arricchimento complessivo della personalità.

Dall’altro lato sentiamo l’incombere della minaccia nell’atmosfera vagamente sinistra che avvolge la ragazza, anche durante le banali attività del quotidiano.

Nell’affiorare continuo di presunti segni che non è chiaro se abbiano connotazioni positive o maligne.

Nella presenza di un fantasma che quasi sembra incarnarsi attraverso i messaggi del cellulare dal quale Maureen non si separa mai, come se potesse riempire il vuoto di comunicazione con un pieno di informazioni che sembrano fungere da anestetico al dolore.

Assayas ci rammenta quanto il bisogno di comunicare sia forse il bisogno più profondo.

E terribile se ne siamo impediti da qualcosa come la morte o un abbandono inelaborabile.

Abbiamo allora la necessità di trovare una strada, un mezzo, qualsiasi cosa perfino l’allucinazione pur di non essere lasciati in uno stato di sospensione, nell’alienazione di una vita frenetica in un universo privo di significato.

Ma noi da spettatori vediamo il fratello, o la sua ombra in lontananza, comparire e svanire. Abbiamo la sensazione di una presenza, quasi un angelo custode che segue fedelmente i passi della sorella.

Maureen però non vede, ha bisogno di prove continue e concrete. E’ il dilemma del rapporto simbiotico che pur carico di un travolgente sentimento d’amore è contaminato dal dubbio dell’insinuarsi del suo opposto. Diventa impossibile vedere, sentire correttamente senza fraintendere i significati. 

Ma il regista ci mostra anche come il luogo dell’attesa, dell’ascolto e dell’incontro con chi amiamo e abbiamo perduto è quello dell’inconscio dove la vita vera vi scorre in stanze buie. Essa deve essere portata alla luce e compresa se vogliamo ritrovare quella linfa vitale in grado di farci andare avanti.

 Possiamo ritrovare il mondo che abbiamo perduto, con i suoi legami e i suoi affetti, solo quando siamo in grado di incontrare noi stessi e il nostro dolore, accettandolo fino in fondo. E per farlo dobbiamo avere il coraggio di guardarci dentro, anche rischiando di perderci nel viaggio oscuro della ricerca interiore, popolato da mostri e fantasmi che si possono dissolvere nel momento in cui ci riappropriamo delle nostre proiezioni in un pieno riconoscimento del nostro vero sé.

Di Marina Mollica

e-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it

(Dedicato a chi, nonostante tutto, ha trovato la forza di incoraggiarmi a  scrivere ancora. Ecco l’articolo di questo mese. Con gratitudine).

Il valore della psicoanalisi

 

Se dovessi dire quale metodo di cura ritengo migliore fra tutti, direi senza esitare: la psicoanalisi. E naturalmente ciò risponde al fatto che l’ho scelta come professione, come ambito di ricerca, come scopo di vita, e anche come cura, sentendo fin dall’inizio del mio percorso di studi alla facoltà di Psicologia, un particolare interesse per l’approccio psicodinamico.

Tuttavia, considerando altri modelli terapeutici, che sembrano dare in base alle ricerche ottimi risultati in tempi relativamente brevi, mi sono spesso domandata, al di là della mia predisposizione personale e della mia preferenza, per quale ragione consiglierei ancora e nonostante tutto la terapia psicoanalitica.

Si tratta di una domanda dal valore etico e deontologico dato che chiedere a una famiglia di impegnare per lungo tempo le sue risorse nella direzione dell’approccio che pratico, non è responsabilità di poco conto.

Le ragioni atte a giustificare la scelta potrebbero dipendere dal tipo di disturbo segnalato e dalla predisposizione del paziente per esempio.

Tuttavia una risposta di carattere più generale mi è balzata alla coscienza nel corso di una seduta nella quale, nonostante le apparenze, sentivo che qualcosa non stava funzionando.

Sulla scorta di questa impressione e seguendo alcuni nessi associativi tra le parti del discorso del paziente, ho cominciato a portare alla sua attenzione alcune osservazioni di cui in quel momento non sembrava conscio e che a prima vista avevano l’apparenza di dettagli irrilevanti. Seguendo questo filo conduttore siamo arrivati assieme a mettere in luce sentimenti che se non fossero stati colti e condivisi, lo avrebbero lasciato solo con la sua parte sofferente più profonda.

Spesso i pazienti celano l’esistenza del dolore prima di tutto a se stessi e naturalmente al terapeuta, dato che farlo emergere spaventa. Esso fa entrare in contatto con la propria vulnerabilità. Difese di tutti i tipi si ergono contro questa presa di coscienza. Esse potrebbero essere considerate come mura di cinta che nel momento in cui nascondono e proteggono, allo stesso tempo isolano e indeboliscono chi vi si cela dietro.

Così ecco la risposta alla domanda iniziale. L’esperienza di poter entrare in contatto con ciò che è nascosto dentro di sé può apparire a prima vista come l’apertura di un pericoloso vaso di Pandora. Tuttavia, assistiti da un compagno di viaggio, quale è il proprio analista, si ha l’occasione di risalire la china di un inferno congelato per liberare una nuova corrente vitale che si sperimenta come sentimento di esserci. E’ come se l’immagine di sé dapprima sfocata si mettesse a fuoco e questo facesse provare un grande sollievo assieme a gioia che a volte trova sfogo attraverso lacrime liberatorie.

Penso che tutto questo sia molto differente dall’imparare attraverso esercizi e ragionamenti (le cosiddette strategie che in molti mi chiedono), ad essere funzionali all’ambiente in cui si è inseriti, abolendo sintomi disturbatori. Non dimentichiamo infatti che le categorie psicopatologiche del DSMV sono enunciate in termini di “disturbo”.

Si cerca di eliminare l’elemento disturbatore ma chi è che viene disturbato? Il bambino/adolescente/adulto o i genitori, la scuola, gli amici, il luogo di lavoro ecc.?

Non mi si fraintenda. Non ho intenzione di negare il valore del poter avere una vita più scorrevole e comportamenti più adattivi.

Ma se tutto inizia e finisce qui, temo che ci stiamo perdendo qualcosa di fin troppo significativo perché almeno non si tenti di ricordarlo.

A che serve togliere sintomi comportamentali e cognitivi attraverso tecniche riabilitative se poi nel sottofondo siamo ancora completamente addormentati nel mondo di sogno creato da condizionamenti interni ed esterni? Come faccio a sapere chi sono, o chi non sono, se il mio unico scopo è aderire a un contesto sociale che mi vuole privo di elementi di disturbo per me e per gli altri? Preferisco tenermi i miei sintomi che almeno mi ricordano che una parte di me sta ancora dormendo ed è cieca a realtà più profonde e infine più elevate.

Dante e Virgilio erano dovuti passare per l’inferno prima di giungere al Paradiso.

E il Paradiso per me è il sentimento di esserci che si rinforza improvvisamente, ogni volta che si giunge a una maggiore comprensione di sé. Perché si sottrae la propria coscienza al mondo dell’inconscio e quindi della ripetitività involontaria e automatica, definita da Freud coazione a ripetere. Si raggiunge per un breve, impagabile istante la consapevolezza di poter essere liberi da passato e futuro che mollano la loro presa e lasciano intravvedere un orizzonte sconfinato di quiete e potenzialità. Un istante del genere, per quanto breve, trasforma l’intera esistenza e la rivitalizza. Forse perché in realtà si entra in contatto con una realtà universale che in quanto tale è fuori dal tempo e permette di liberare energia psichica disponibile per il pensiero creativo.

Si tratta in una parola di assaporare la libertà.  E non credo sia poco.

Di Marina Mollica

e-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it

Immagine: Pixabay (Michelangelo: dettaglio)

La psicosi per Bion

Per comprendere cosa sia la psicosi per Bion, bisogna anzitutto tenere presente il concetto di identificazione proiettiva di Melanie Klein che Bion riprende apportandovi alcuni cambiamenti.

La Klein faceva riferimento a questo concetto per descrivere l’operazione difensiva del lattante di fronte a vissuti di angoscia legati al sé in rapporto con l’oggetto (caregiver).

Per proteggere le buone esperienze egli scinde ed espelle quelle negative, nella fantasia che esse appartengano all’oggetto esterno.

In pratica ciò che prima era sentito come una minaccia interna a sé, viene separato e allontanato al di fuori di sé. In questo modo la psiche è strutturalmente preservata. Questo meccanismo difensivo ha una valenza profondamente evolutiva dato che in sua assenza si sarebbe inondati di contenuti mentali distruttivi in grado di destabilizzare la psiche con stati confusionali dove bene e male, libido e aggressività non sarebbero più distinguibili.

Un po’ come se ci trovassimo a dover mangiare del buon cibo assieme a prodotti di scarto. Non potremmo più beneficiare della parte commestibile del piatto.

L’identificazione proiettiva come meccanismo di comunicazione

Quello che fa Bion è di portare avanti il pensiero della Klein ponendo l’accento sul fatto che il meccanismo dell’identificazione proiettiva è alla base della comunicazione tra madre e bambino.

La mente della madre infatti diventa il contenitore dei vissuti del suo neonato che acquisiscono attraverso di essa un significato.

Dunque Bion descrive questo meccanismo in termini di rapporto tra un contenuto e il suo contenitore. Il contenuto è tutto il materiale psichico costituito da parti di sé cattive in relazione con l’oggetto cattivo che il neonato cerca di espellere. Esso trova nella mente della madre un contenitore atto a digerirlo e restituirlo al neonato in forma per lui più tollerabile. Ciò è possibile grazie alla preziosa funzione mentale, chiamata da Bion “reverie”. Attraverso di essa la madre può sintonizzarsi su quanto accade nel mondo interno del bambino, immaginando, “sognando” (reve: sogno), con proprie sensazioni, sentimenti, fantasie, fantasmi e pensieri ciò che in lui sta accadendo. Ella quindi si fa interprete degli accadimenti psichici del bambino e lo fa in modo del tutto spontaneo e naturale.

Se il lattante è in preda a rabbia o angoscia per la frustrazione dovuta a fame o per un disagio fisico, la madre sente ciò che prova e provvede ad alleviare la sua sofferenza. Così, oltre a dargli cure materiali (latte, pulizia, abbracci ecc.) attraverso di esse fornisce una interpretazione dei suoi stati mentali. Un significato appunto.

Questo processo per Bion è alla base della formazione dei simboli e del pensiero simbolico dato che parti di esperienza mentale intollerabile e quindi incomprensibile ricevono una interpretazione simbolica che viene introiettata dal neonato.

Dunque per Bion la relazione contenitore-contenuto porta ad uno sviluppo della mente che impara a tollerare la frustrazione anche sotto forma di dubbio. Con un potenziale di espansione senza limiti che è alla base di un senso di infinito.

La psicosi per Bion: un rapporto contenitore-contenuto distruttivo

Il problema sorge quando il rapporto contenitore-contenuto si altera ed è soggetto ad attacchi distruttivi di tipo invidioso.

Ciò può accadere quando non c’è una buona sintonizzazione tra il lattante e il suo caregiver a causa di fattori sia ambientali (traumi ripetuti) sia innati, che provocano una maggiore intolleranza alla frustrazione da parte del neonato.

Il problema dell’invidia, come sottolineava la Klein, è davvero drammatico perché ciò che viene attaccato non è solo ciò che è cattivo ma proprio ciò che vi può essere di buono nell’oggetto e nel rapporto con esso. Ogni possibilità di crescita evolutiva viene quindi annientata e il rapporto contenitore-contenuto subisce un impoverimento progressivo.

Di fronte al malfunzionamento di questo rapporto la difesa dell’identificazione proiettiva non avrà più valenza comunicativa (come dicevamo il neonato espellendo nella madre la sua angoscia gliela comunica ricevendo in cambio, assieme al latte, la capacità materna di dare un significato alla sua esperienza) ma si trasformerà in un vero e proprio attacco sadico nei confronti dell’oggetto sentito come esageratamente frustrante e quindi invidiato e desiderato avidamente. L’attacco si estende non solo all’oggetto ma anche a quella parte della propria mente che è in grado di sperimentare tali sentimenti angosciosi. Esso avviene sotto l’effetto di un’identificazione proiettiva definita da Bion patologica, che spezzetta l’apparato psichico in minuti frammenti poi espulsi violentemente (il più lontano possibile) nel mondo esterno. Essi formano agglomerati collocati all’interno di oggetti esterni definiti “oggetti bizzarri”.

La psicosi per Bion: un’esperienza di distruzione dell’apparato mentale

Gli oggetti bizzarri sono dunque la risultante di questa mescolanza disordinata di aspetti di oggetti reali e parti dell’apparato psichico. Per via dell’identificazione proiettiva patologica, la mente si svuota e si impoverisce progressivamente. Questo è un processo che si svolge fin dalle primissime fasi dello sviluppo.

E giungiamo quindi a capire cosa intende Bion per psicosi. Un’esperienza di distruzione dell’apparato mentale causata da un’identificazione proiettiva patologica il cui scopo sarebbe quello di proteggere la mente dalla coscienza di contenuti terrificanti che vengono espulsi assieme a parti dell’apparato psichico e percepiti da parte dell’individuo come inseriti in oggetti esterni.

Dal punto di vista psicotico gli oggetti bizzarri si incistano negli oggetti reali che ne sono posseduti e attaccati e che poi a loro volta attaccano quella parte di personalità che è stata proiettata in essi, deprivandola progressivamente di vitalità al punto da trasformarla in una cosa. Il rapporto contenitore-contenuto allora porta a una progressiva spoliazione del significato della relazione sé-oggetto.

Psicosi: assenza di un apparato psichico per pensare i pensieri

Il pensiero normalmente è costituito da simboli (parole che rappresentano cose) formatisi appunto attraverso un rapporto in cui il neonato introietta come sua funzione sia il contenuto che il contenitore (mente della mamma) in grado di fornire un significato al contenuto, per cui si è costruito un apparato psichico in grado di pensare i pensieri.

Nel caso della psicosi invece questo apparato non si è costruito dato che il rapporto contenitore-contenuto è stato caratterizzato da reciproca distruttività. La mente rimane intrappolata dagli oggetti bizzarri definiti anche “cose-in sé” cose cioè che non rimandano ad alcun tipo di contenuto simbolico e rappresentativo.

Gli oggetti bizzarri sono l’unico materiale di cui lo psicotico dispone per costruire il pensiero ed esso finisce per obbedire alle leggi che regolano la realtà fisica diventando concreto. Questo impoverimento causato originariamente dal tentativo di evitare l’angoscia derivante dalla frustrazione, sarà tuttavia proprio la causa di una maggiore frustrazione a causa dell’impossibilità di elaborarla attraverso il pensiero simbolico, causando un circolo vizioso senza fine.

Conclusione

Oggetti bizzarri al posto dei pensieri, assenza di pensiero simbolico e di apparato per pensare (funzioni del pensiero) e impossibilità di sviluppare il pensiero verbale, sono gli elementi caratteristici della psiche della personalità psicotica, che, è giusto sottolinearlo, per Bion può coesistere a diversi gradi con la parte non psicotica della personalità. Solo nei casi di psicosi conclamata che quindi corrisponderà a una diagnosi e non più solo a un tipo di funzionamento, essa finirà col prevalere e dominare tutta la vita psichica dell’individuo in una via senza ritorno.

Di Marina Mollica

E-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it

Bibliografia: Introduzione al pensiero di Bion, di L. Grinberg, D.Sor, E. Tabak de Bianchedi, Raffaello Cortina editore, Milano, 1993.

Immagine: Pixabay

Gazza ladra

 

 

Gazza ladra

in un volo

rubami le brillanti idee

e lascia che il vuoto ritorni in primo piano.

 

Di Marina Mollica

e-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it

Lo straniero

Lo Straniero” di Camus: ecco un’opera che merita di essere letta, riletta e meditata. Opera attraverso la quale, con l’espediente della storia narrata in prima persona, l’autore esemplifica, con impatto immediato e piuttosto destabilizzante, l’impossibilità di conciliare in una sola, le diverse prospettive umane.

Troppo spesso nel tentativo di comprendere la realtà mentale dell’altro si finisce con il fargli violenza, assoggettandolo ai propri schemi.

Allora il primo punto di domanda di Camus immagino sia questo: se si possa trovare un luogo di incontro per conoscersi davvero, o per caso non si stia gli uni accanto agli altri, isolati all’interno di un muro invalicabile di fraintendimenti e proiezioni.

E forse per questa ragione si ha l’impressione di osservare per tutto il tempo, insieme al protagonista Meursault, la vita e gli uomini da dietro un vetro, come se i suoi pensieri scaturissero da un interno chiuso e soffocante dal quale si compie una sistematica opera di spoliazione della realtà psichica.

Eppure, anche se il mondo del simbolo e degli affetti sembra precluso, e i pensieri, essendo privi della naturale coloritura dei sentimenti, appaiono meccanici e piatti, sperimentiamo progressivamente l’accrescersi di uno struggente desiderio di vita.

E intanto Meursault, a partire dal momento del funerale della madre, annota con giudiziosa quanto asettica puntualità ogni più piccolo dettaglio degli avvenimenti quotidiani, tanto che diventa quasi impossibile delineare il soggetto centrale della sua prospettiva.

Un dettaglio assume la stessa valenza di un evento straordinario mentre avvenimenti che dovrebbero risultare straordinari, come un funerale o un incontro d’amore, si dissolvono nel calderone delle mutevoli sensazioni, descritte attraverso una cronaca attenta e spesso puntellata di noia e fatica. Dunque una cappa caliginosa e ovattata scende sulla nostra percezione di lettori.

Immagini vacue di un eterno presente si susseguono senza apparente nesso tra loro. Unico filo conduttore: le sensazioni concrete di un esserci all’interno di un corpo, che vincola con bisogni e limiti o che talvolta, dona piacevoli esperienze piene di intensità.

Su uno sfondo omogeneo emergono le emozioni, quali istantanee pronte a dissolversi nel mare di percezioni, mentre la mente è catturata da una iper-sensorialità prevaricante che regola lo scorrere del giorno.

Attraverso il suo personaggio Camus ci fa provare un senso di estraneità, o di estraniamento. Quello che appunto uno straniero o forse un alieno potrebbe provare in un pianeta sconosciuto. Giunto da un universo psichico altro e perciò completamente privo delle categorie che ci contraddistinguono come esseri umani sociali e al tempo stesso ignaro di quelle regole della comunicazione che organizzano e definiscono il perimetro dei nostri rapporti, egli ci appare in qualche modo innocente e puro.

Perfino quando scarica cinque colpi di pistola sul corpo di un uomo, solo perché oppresso dal caldo, quello stesso caldo che a causa del sole accecante, il giorno del funerale della madre aveva cominciato ad intaccare, senza che ce ne avvedessimo, l’equilibrio evidentemente fragile di Meursault.

Si comincia a domandarsi se non siano le sensazioni fisiche a prendere il posto dei sentimenti, comunicandoci il contenuto di un mondo interno altrimenti indecifrabile, e assumendo un peso tale da spezzare l’armonia del giorno in modo irreparabile.

L’imminente frattura era stata in effetti segnalata da alcuni episodi apparentemente privi di significato, come quello del Salamano che gemendo per la perdita del suo cane, porta Meursault a ripensare alla madre, per lui senza un motivo. O quello in cui Meursault si sente svuotato e con il mal di testa alla vigilia della gita al mare.

Sembra dunque che sia il corpo a veicolare comunicazioni altrimenti inesprimibili.

Così, improvvisi guizzi di eccitazione e felicità vengono osservati e poi descritti con l’onnipresente distacco, mentre la compassione o il dolore per la sofferenza altrui sono sostituiti da una ragionevolezza oggettiva e spassionata che permea la valutazione dei fatti fino al punto estremo di concordare con la posizione dell’interlocutore anche quando questa è contraria ai propri interessi più vitali.

Questa caratteristica in effetti disarma, commuove e intenerisce, ma solo chi è collocato nella mente del protagonista, cioè noi lettori, mentre il resto del mondo interpreta le sue parole e le sue azioni alla luce delle proprie griglie interpretative, fraintendendone intenzioni e atteggiamenti.

Assunti relazionali come il principio principe della comunicazione: che non si può non comunicare, (qualsiasi cosa facciamo o non facciamo è oggetto di attribuzioni da parte degli altri) generano una paradossale situazione di incomunicabilità. Lo vediamo chiaramente quando tutti coloro che circondano Meursault inferiscono dalle sue parole e ancor più dai suoi silenzi, una lunga serie di metasignificati che portano inesorabilmente alla condanna assoluta.

Ciò che sfugge alla comprensione comune può solo essere rifiutato. Lo straniero, estraneo e alieno, diventa il mostro per definizione.

Quello che sgomenta chi lo circonda, è che Meursault è portatore di un’assenza di significato. Egli è straniero infatti anche a se stesso, completamente estraneo al mondo dei sentimenti, dissociati ed evacuati nel corpo, portatore dei pesi e delle sofferenze della vita. E dunque è la morte personificata che, con il suo essere inestricabilmente connessa alla vita, offende la ragione e l’istinto primario alla sopravvivenza.

Necessariamente un tale individuo dev’essere considerato un criminale e suscitare ora sdegno ora ilarità ora imbarazzo perché non si è capaci di sospendere ogni giudizio e restare in silenzio di fronte al proprio limite.

E anche perché non si è capaci di rinunciare ad un egocentrismo che porta inesorabilmente a chiedere conto della nostra infelicità a chi ci circonda.

Meursault sembra a tutta prima una creatura primitiva, quasi un debole mentale eppure si resta con l’imbarazzante sensazione di esserlo noi, quando ci identifichiamo con il buon senso comune, dal momento che per non saperci confrontare con ciò che non comprendiamo, lo comprimiamo nelle nostre limitate categorie interpretative, metaforicamente rappresentate dall’angusto spazio di prigionia in cui l’uomo, ignaro di ciò che si muove attorno a lui, è costretto a vivere negli ultimi mesi, fino all’annientamento finale.

La mente umana è programmata per trovare un senso, per mettere un bordo ad un infinito omogeneo in modo da delineare una figura qualsiasi e trarre dal nulla una forma di esistenza.

Vediamo dunque uno a uno i personaggi che lo circondano, cucirgli addosso una trama complessa di attribuzioni tutte nate dai bisogni, desideri e paure di ciascuno.

Nella prima parte del romanzo ci sono quelli che lo guardano con stima, rispetto e affetto. Perfino amore. Un amore che però non può salvare perché privo di significato agli occhi di Meursault e quindi incapace di giungere oltre il limite invalicabile della separazione di menti e di corpi. Il ricordo stesso della bellezza di Marie e dei fugaci istanti incantati vissuti assieme a lei è destinato a cedere il posto all’infinita solitudine del protagonista che non ricevendo più visite la immagina necessariamente assorbita da una nuova relazione. Del resto lei stessa di fronte alla noncuranza di Meursault per la sua proposta di matrimonio, che pure accetta, finisce col domandarsi se lo ami veramente, giudicandolo appunto “strano”. Forse lo ama proprio per questo ma sa che un giorno potrebbe farle schifo per lo stesso motivo.

Nella seconda parte poi vediamo capovolgersi nel suo rovescio l’emblematica medaglia mentre l’arringa finale del procuratore sarà come un fiume in piena che travolge, con la sua retorica, le deboli menti della giuria e dell’uditorio ormai persuasi della colpevolezza dell’imputato.

E mentre lo scorrere dei pensieri di Meursault va di pari passo con gli avvenimenti, su di lui si accumulano le nubi nere della tragedia, creata da un mondo che funziona con la stessa precisione crudele e meccanica della ghigliottina cui la sua testa è destinata. Una società che crede di essere detentrice dei valori di verità, giustizia e bontà, e che li porta avanti con feroce determinazione fino a trasformare ciò che non è in grado di comprendere, in un mostro.

Horror vacui dunque è un altro dei temi di questo capolavoro, che attraverso un tono affettivo piatto fa trapelare un dolore straziante che sorge improvviso quando osserviamo compiersi il vero delitto ai danni del capro espiatorio che, senza quasi avvedersene, assume su di sé la colpa del mondo come un novello Cristo. La colpa risiede nel sentimento di impotenza di cui non si ha il coraggio di farsi carico. Meursault diventa allora il bersaglio della rabbia di tutti, proiettata e mimetizzata nella creazione del mostro alieno e ripugnante.

La colpa è anche quella del darsi un’importanza esagerata, a differenza di Meursault che dotato di una inconscia umiltà, più simile a quella di un animale che di un uomo, si lascia attraversare dall’esistenza assaporandone interamente i momenti di poesia e lasciandoli andare per sempre l’istante successivo.

Ma assieme a questi filoni principali alcune inquietanti domande sembrano affiorare implicitamente dal testo. E’ davvero una debolezza la mancanza di sentimenti se ci porta a quel necessario distacco che permette di godere di ogni attimo come se fosse l’unico? L’amore esiste o tutto quello che possiamo sperare di dare e ricevere davvero è il godimento reciproco dei corpi accompagnato da fuggevoli emozioni che assumono così valore assoluto?

Il mondo degli affetti può permanere in una condizione di purezza senza essere presto contaminato dalla pressione di bisogni egoistici che portano a legami reciprocamente distruttivi, come ben mostra il rapporto tra il Salamano e il suo cane? Possono davvero distinguersi l’amore, dall’odio? L’altruismo dall’egoismo? O non si tratta per caso di categorizzazioni atte a proteggerci dalla coscienza della nostra miseria?

E ancora: i sentimenti sono davvero utili o non distorcono forse il reale con la loro soggettività? Non sarebbe meglio munirsi della stessa indifferenza che sembra caratterizzare Meursault per interpretare in modo veritiero ciò che ci circonda?

Due omicidi sono messi a confronto: quello apparentemente privo di significato ad opera di Meursault e che viene letto come un segnale di brutalità gratuita, e quello legalizzato che vede il protagonista come vittima di una società che si arroga il diritto di condannare un proprio simile. Sono davvero differenti nella sostanza? Questo sembra chiedersi l’autore, che portando il suo pubblico ad identificarsi con lui sembra propendere per una assoluzione del primo e una condanna del secondo.

L’aggressione cui l’uomo è sottoposto, chiuso in una cella e privato di quella libertà di cui era inconsapevolmente innamorato lo costringe a sentire oltre ogni limite e capacità di sopportazione e ad incontrare se stesso in una introspezione forzata e dolorosa, che esplode nello sfogo di rabbia di fronte all’invadente intrusione del prete che prepotentemente vuole dare aiuto al solo vero scopo di riceverne.

Dunque alla fine sentimenti di collera fanno irruzione di fronte all’ennesima forma di violenza psicologica e con essi, gioia per l’improvvisa chiarezza che porta conciliazione tra i pensieri frenetici con i quali Meursault aveva cercato di trovare una soluzione di fronte all’alternarsi di accettazione della morte e desiderio di prolungare la vita.

Si completano così definizione di sé e visione del mondo la cui “tenera indifferenza” porta Meursault a riconoscere la sua somiglianza con esso e a scoprire un sentimento di fratellanza, soprattutto verso la madre con cui si accorge di condividere il bisogno di ricominciare una nuova vita proprio a ridosso della morte.

Sorge come un sole a illuminare la coscienza, la consapevolezza che niente ha importanza. Essa diventa accettazione totale e liberazione finale.

Come il prete che piange, pieno di superflua compassione per il condannato, constatiamo con dolore e soggezione l’incertezza di poterci mai veramente avvicinare a Meursault e con lui a qualsiasi essere umano compresi noi stessi, a meno di non riconoscere la completa mancanza di significato e di importanza di tutte le nostre sovrastrutture psicologiche e sociali.

Solo così si può forse sperare di giungere alla verità delle cose e sperimentare autentica fratellanza e gratitudine per il privilegio di essere vivi.

 

Di Marina Mollica

e-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it

Irma la dolce: una questione di forma

Tra i film di Billie Wilder, penso che Irma La Dolce possa ritenersi a buon diritto quello più riuscito.

Pieno di humor, sagacia e poesia, con una sceneggiatura non velocissima ma efficace, Wilder ci fa entrare in un mondo parallelo girando l’angolo di Rue Casanova.

Dapprima identificati con l’occhio onesto e inquisitore del gendarme Nestore Patou, poi gradualmente con quello ammiccante e sornione di Moustache, barista del bistrò di fronte, compiamo assieme a Nestore una trasformazione liberatoria nel passare dalla rigidità quasi bambinesca con cui egli si rapporta al mondo, allo sguardo di un uomo maturo, capace di dare e ricevere amore.

Moustache potrebbe rappresentare lo stesso Wilder nel suo interrogarsi su quale sia il miglior modo di affrontare la vita e le sue sfide, quando afferma ch’essa è una guerra a cielo aperto e non si può ammettere l’obiezione di coscienza. Con ciò si riferisce alla visuale “borghese” e priva di compromessi di Nestore, inaccettabile in un mondo dove prevale la disonestà.

Bellissima questa riflessione che apre la strada al percorso di maturazione di Nestore e con lui a quello della prostituta Irma detta la douce, cioè la dolce.

Ed ecco dunque una prima profonda lezione che questo sorprendente film ci dà con la leggerezza propria delle commedie: che per vivere in questo mondo dobbiamo imparare a comprendere e integrare tutte le parti di noi stessi, pena l’essere estraniati dalla realtà che provvederà a presentarci il conto alla prima occasione.

Tutte le istanze devono essere in equilibrio tra loro: quelle etiche e morali, quelle del mondo affettivo e quelle della realtà. Freud parlerebbe di gioco tra Es, Io e Superio.

Il cambio di prospettiva di Patou avviene alla stessa maniera di qualsiasi essere umano che entrando nella fase dell’adolescenza, deve temporaneamente abbandonare i modelli interiorizzati nell’infanzia, dell’etica dei genitori, per trovarne di nuovi e più adatti, confrontabili con le necessità imposte dai propri bisogni/desideri all’interno di un contesto sociale reale e quindi complesso.

Dunque l’entrata di Nestore nel mondo della malavita e della prostituzione, con la perdita del lavoro e del ruolo con cui in precedenza era così fortemente identificato, sembra rappresentare perfettamente il disorientamento dell’adolescente quando è costretto ad abbandonare gli oggetti della sua infanzia per cercarne di nuovi e più adatti ai suoi bisogni affettivi e sessuali risvegliati dalla maturazione psicofisica.

Chi non si adatta al processo di crescita e si ostina a rimanere legato al proprio mondo infantile, nella forma di una morale del tipo tutto bianco e tutto nero, verrà rigettato dal mondo reale e costretto a rivedere la propria interpretazione della realtà.

Così Nestore, privato di tutte le sue sicurezze fino ad allora intatte, riceve attonito gli insegnamenti di Moustache ai quali appare sulle prime resistente ma che entreranno a far parte del suo pensiero in un batter d’occhio, sotto la pressione del desiderio e del bisogno. Si conquisterà così il ruolo di boss del quartiere, con il soprannome di Tigre, che sarà più frutto di una serie fortunata di circostanze casuali che non di realtà. Ma tant’è, basta che tutti ti vedano in un certo modo che tale diventi, proprio come accadeva nella novella di Pirandello.

Così per amore o per forza Nestore finisce con l’impersonare il ruolo più rispettato e temuto della gang e per questo riesce a conquistare l’amore della sua bella. Ma sostenere l’immagine fittizia che altri ci hanno attribuito non è facile e sotto sotto restano le istanze più profonde dell’amore e della fedeltà, della dedizione e del sacrificio, inconciliabili con una mentalità basata sull’abuso, lo sfruttamento e la sopraffazione del più forte sul più debole. Mentalità che invece Irma ha sposato, rifiutando di ripercorrere la “fallimentare” carriera materna. Tutto è alla rovescia nel mondo di Irma tanto che è proprio lei a pretendere di mantenere il suo uomo per dimostrare a lui e a tutti la sua capacità di dargli il meglio. Una specie di società matriarcale si nasconde dietro lo sfruttamento dei maschi, dove la migliore è colei che conquista più clienti.

E Irma prende il suo lavoro molto sul serio definendolo una “professione”, perciò non esiterà a rinfacciare a Nestore il fatto che dietro il suo successo c’è lei, con le sue risorse senza le quali lui non sarebbe nessuno. Ma negli anni ’60 in una società che si rispetti è l’uomo che provvede all’amata, portandola all’altare per poi regalarle la possibilità di essere madre.

Dunque come mettere insieme le attese del gruppo di riferimento e della propria amata, con i propri bisogni e ideali? Come conciliare l’amore per Irma, con il ruolo di protettore? E come risolvere il problema della gelosia?

Si tratta ancora una volta di affrontare l’ingrato compito dell’integrazione tra parti di sé. Ma Nestore ricorre alla soluzione più patologica che ci sia: diniego della realtà e scissione in una doppia vita, di giorno e di notte, che rappresenta l’impossibilità di tenere assieme gli opposti e che darà luogo a una serie di complicazioni e di equivoci tanto esilaranti quanto disastrosi. La soluzione a tutta prima appare geniale, ma assumere una doppia identità sarà pagato a caro prezzo, addirittura con la galera. La cosa interessante qui è la situazione paradossale cui la mente è sottoposta. Non conta la realtà fattuale: il fatto cioè che il ricco epulone cui Irma si affeziona, altri non è che Nestore sotto mentite spoglie. Irma non lo sa e questo è ciò che conta.

Il problema della gelosia e del tradimento dunque, risolto sul piano di realtà, simbolicamente rimane. Gelosia verso quella parte di sé che gode delle attenzioni sessuali dell’amata. Il gioco di fantasie e immaginazioni, cioè la realtà fantasmatica è la vera realtà. La forma è superiore alla sostanza e il simbolo alla concretezza. Il mondo intrapsichico, con i suoi oggetti determina se saremo felici o fallimentari e Nestore è costretto suo malgrado ad assistere alla scena primaria mentre il suo alter ego si lascia andare alle grazie della donna che, a sua volta gelosa, si vendica delle presunte scorribande dell’amato tra prostitute rivali. Viene affrontato dunque un tema scottante, quello del conflitto edipico che nasce dalle relazioni interiorizzate con i genitori e che nevroticamente può portare all’identificazione con una parte di sé infantile, gelosa nei confronti di un’altra identificata con un sé adulto.

E come si chiede a una vera tragedia, il padre (e la madre) devono essere fatti fuori. Così mentre Irma prende a botte la “collega”, Nestore ucciderà nel Lord il personaggio da lui stesso creato. E ancora una volta realtà e fantasia si intrecceranno inestricabilmente mettendo nei guai il povero Nestore. A poco servirebbe rivelare i fatti reali, che, come il buon Moustache fa notare, non interessano a nessuno. La realtà è quella che ci sembra più plausibile in base al contesto in cui ci muoviamo e di esso dobbiamo tenere conto se vogliamo sperare di spuntarla.

Così finalmente trionfa una nuova consapevolezza, laddove il tempo della galera rappresenta la faticosa conquista dell’età adulta. Ormai forte della sua esperienza Nestore è libero di realizzare il suo sogno d’amore, accettandone i limiti e integrando tutte le parti di sé, rivale interno compreso, con il quale Irma, certa della sua paternità, ha concepito il figlioletto nel simbolico tradimento.

Ma alla fine di questo stupendo film, Wilder ci riporta al consueto gusto per la burla e ci ricorda che nulla va preso troppo sul serio, nemmeno i nostri fantasmi che altrimenti potrebbero assumere una vita propria. Ed è per questo che perfino Moustache, sopraffatto dagli eventi e a rischio di dare di matto opta per quella noncuranza, che lo contraddistingue, quando conclude con la frase: “ma quella è un’altra storia”.

Perdono

 

 

A chi dà senza essere apprezzato

a chi è frainteso accusato giudicato

a chi non viene perdonato

e non perdona

a chi viene abbandonato

e poi abbandona

a chi non ascolta e non è ascoltato.

 

Sordidi conflitti e minuti

della vita quotidiana

del vicino col vicino

dell’intimo con l’intimo

lotte intestine

viscerali

 

A chi non vede

e non è visto né sentito

a chi ha sentito e visto troppo

e chiude gli occhi al sole

solo vento, solo mare

come amico

a chi solleva e poi condanna

a chi si illude

e poi delude

 

A chi vuole esser perfetto

a chi esalta e poi disprezza

a chi getta via un amico

perché ci ha sputato sopra

sentenze senza amore

a chi è imprudente

dissennato

impulsivo esagitato

a chi rovina quanto di più bello aveva

 

Sordidi conflitti e minuti

della vita quotidiana

del vicino col vicino

dell’intimo con l’intimo

lotte intestine

viscerali

 

A chi piange

a chi ha perso la speranza

a chi vorrebbe solo essere abbracciato

oltre alle parole

e dare

le sue mani alle mani di chi ama

e si ritrova invece con i cocci da buttare

a chi parla troppo e non sa tacere

a chi in pace con se stesso non sa stare

 

A chi odia la distanza

che non possa esser colmata

a chi cerca una promessa che poi venga mantenuta

a chi vuole chiarezza

cose certe luminose

a chi vuole verità sacrificio dedizione

 

Sordidi conflitti e minuti

della vita quotidiana

del vicino col vicino

dell’intimo con l’intimo

lotte intestine

viscerali

 

A chi decide

a chi non lascia spazio

a chi comanda

a chi ha il potere di tirare i fili

e di tirare a sorte

per giocare con la morte e con la vita

propria e altrui

 

A chi si nasconde dietro scuse

e a chi di scuse non ne ha

a chi guarda solo a sé

e a chi dà quello che dà

a chi calcola e misura

e che mira al tornaconto

a chi prova e non riesce

la paura è una condanna

 

Io perdono tutto e tutti e me con loro

in un giorno benedetto

che immagino possibile

di grazia universale

oltre a tutto 

alle parole

di condanna di vendetta

di morte, distruzione e di abbandono

Dire tutto in un abbraccio

dire solo: io perdono.

 

Di Marina Mollica

e-mail: info@psicoterapia-eta-evolutiva.it